CLAUDIO BAGLIONI IO POPOLARE? NON LO SENTO PIU' COME UN LIMITE

GIORNALE DI BRESCIA   Le sue canzoni sono la colonna sonora di varie generazioni di italiani, e risuonano nelle orecchie anche di coloro che sostengono di non ascoltarle. Lui, Claudio Enrico Paolo Baglioni, romano classe 1951, ha pubblicato dischi, live e di musica per il cinema, vendendone milioni. Ma, soprattutto, ha attraversato indenne le mode che nella musica bruciano in fretta, talenti e carriere, ritrovandosi popolare oggi quanto ieri, sia pure in forme magari diverse. È un uomo intelligente e schivo, che assegna grande valore alle parole. E poiché in novembre porta il suo live da noi, l’abbiamo intervistato. 1) Rappresenta un’eccezione rispetto alla maggior parte dei cantautori italiani: ha avuto successo fin da giovane, riducendo i tempi di gavetta. Come percepiva la notorietà nei primi anni ’70 e come la vive ora? Nei primi anni, è stato stupefacente. Specie all’inizio. Il passaggio da «persona comune» a persona nota è davvero siderale. È come passare dall’altra parte della galassia: ti conoscono persone che tu non conosci. È questo lo «status» più sorprendente. Col tempo, ci si fa un po’ l’abitudine. Non sempre si vive tutto questo con contentezza. Qualche volta vorresti la perfezione: essere conosciuto quando vuoi e sconosciuto quando non vuoi. Ma questa perfezione non esiste. E, allora: viva l’imperfezione. Secondo me, è una condizione alla quale non ci si abitua mai, soprattutto per chi, come me, non ha l’esibizionismo più spinto inscritto nel DNA. Anche se è vero che tutti quelli che fanno questo mestiere un po’ di narcisismo l’hanno nei geni.   2) Tutto iniziò cantando «Ogni volta» di Paul Anka a un concorso, e proseguì musicando le poesie di Edgar Allan Poe. Amori che hanno resistito? Beh, sì. E poi, dato che la storia è durata così tanto, anche ammesso che non fosse amore, era certamente destino… Poe era la voglia di essere più grande: avevo sedici, diciassette anni, per questo mi piaceva tanto quel mondo «gotico» e così immaginifico. Una proiezione del sogno di sempre…   3) Che musicisti ascolta e che autori legge oggi? Negli ultimi tempi - anche per il mio incarico di Direttore artistico di Sanremo - ascolto soprattutto quello che devo ascoltare per scegliere, insieme alla commissione esaminatrice, le canzoni da selezionare. È un ascolto da tecnico, è vero, ma anche da amatore. La lettura, invece, è più variegata.    4) Molti suoi dischi sono stati apprezzati dalla critica, oltre che dal pubblico. Ma le è rimasta addosso l’etichetta di cantautore popolare. La sente come un limite? Adesso non più. A parte che, nel tempo, la parola popolare si è molto rivalutata: oggi ha un significato molto più nobile che in passato. Anche se ricordo che mi colpì Vittorio Gassman che, parlando di Claudio Villa, disse che la cosa che gli invidiava di più era il fatto che fosse un artista «popolare». Oggi capisco il perché. Tutti tendiamo a piacere di più a certe «anime» che riteniamo più elevate, ma la verità è che essere veramente popolari è la cosa più difficile del mondo.   5) Bob Dylan stravolge o esclude le hit dai suoi concerti per evitare che vengano cantate. Lei, a volte, ha chiesto al pubblico di non accompagnare «Questo piccolo grande amore», ma non ha rinunciato a farla. Ha superato il fastidio o ci è venuto a patti? Assolutamente: dopo la pace dei sensi c’è quella dei consensi. Il fatto è che facciamo tutti fatica a essere riconosciuti per un pugno di canzoni o, addirittura, un unico pezzo. Questa sindrome l’ho superata da tanto tempo dopo averne fatte davvero di tutti i colori, soprattutto con «Questo piccolo grande amore». Ricordo che, durante il tour «Assolo», ne eseguivo una versione completamente riarmonizzata. Una sera, una fan – che mi dava del lei, probabilmente per mantenere le distanze, a seguito del «sacrilegio» che, a suo giudizio, avevo compiuto - mi affrontò a brutto muso e mi disse: «Lei non può permettersi di fare questa canzone cosi! Deve farla nella sua versione originale, perché questa canzone, adesso, non è più sua: è nostra». Lì per lì pensai: «Ma come si permette! La canzone è mia e la suono come dico io». Poi ci riflettei e mi resi conto che aveva ragione. Quella che avevo considerato un’indebita ingerenza, era in realtà uno dei più bei complimenti che io abbia mai ricevuto: il riconoscimento di aver dato vita a qualcosa di «universale».   7) Mi colpì, anni fa, una sua dichiarazione sull’uso del tempo: soddisfatto di come lo ha impiegato?  Soddisfatto, anche se farei in altro modo tutte le cose che non mi sono piaciute. Il che significherebbe fare tutto in modo diverso. Alla fine, come ho scritto in «Tamburi lontani», il tempo vince sempre. Non ci si può mettere contro di lui. Scorre e noi cerchiamo con affanno di stargli dietro. L’importante è non lasciarlo scorrere in maniera inutile. Ha ragione Seneca: non è che ne abbiamo poco, è che ne sprechiamo tanto.   

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