Baglioni: è il mio Anno Santo, ho perdonato i miei tormentoni

Claudio Baglioni scuote la testa. Negli studi Fonoprint sono in corso le registrazioni degli archi per il suo nuovo album — titolo di lavorazione Duello, uscita in autunno — e, finita la sessione, il cantautore chiede di riascoltare. «C’è una nota sbagliata: sulla partitura c’era un sol». La leggenda di un Baglioni preciso al dettaglio è verificata. Il sol è uno dei tanti dettagli di questo 2018 che, partito con l’avventura di Sanremo, celebrerà i 50 anni di carriera con un tour (debutto all’Arena di Verona e poi i palasport) in cui il palco sarà al centro della scena circondato dal pubblico a 360 gradi. Partiamo dal Festival. Molti credevano che sarebbe rimasto col cerino in mano, schiacciato dal confronto con i dati di Conti. Invece… «La battuta a quelli della Rai, quando mi hanno contattato che era già agosto, l’ho fatta: non avete nessuno… Mi ha convinto l’idea che Sanremo è un lusso che ci si può concedere una volta nella vita, magari con un senso di ambizione scandaloso. Nessuno si auspicava un successo così». La notte dopo la prima? «Per quanto uno voglia essere un angelo e non avere il sesso dell’Auditel i numeri sono importanti. Al risveglio ho sentito trambusto e urletti di gioia, ma per la soddisfazione di chi doveva portare la buona notizia ho finto di dormire». Ha detto tre «no» alla Rai prima di accettare. A che «no» siamo per il 2019? «Siamo alle avvisaglie. Però mi dico che il lusso ripetuto diventa un peccato». Un consiglio al Baglioni bis o a chi verrà? «Lo farei durare due settimane magari con rassegne a corollario. E, senza esagerare perché resta un romanzo popolare in musica, vorrei vedere rappresentate anche discipline più elitarie e non solo le canzoni orecchiabili». Il nuovo album? «Anche se sono tornato a collaborare con Celso Valli (La vita è adessoe Oltre) non sarà celebrativo. Sarà un disco di esperienza, pieno di suggestioni musicali e con un pizzico di velleità intellettuale». Una rivincita contro la critica che la bollava cantore dei sentimenti? «Una delle tante definizioni che mi vennero date negli anni del cantautorato impegnato e più organico al movimento. Soffrivo come un pazzo all’idea di non essere assimilato a un certo mondo. Col tempo è diventato un segno distintivo e anche una fionda: negli anni ‘80 cercai di meritarmi l’attenzione della critica con album ampollosi e costruiti. Mia madre mi rimproverò: smettila di fare dischi per i giornalisti!». Il momento in cui la carriera cambiò la sua vita? «Il successo non arrivava e Questo piccolo grande amoredoveva essere il mio testamento. Avevo già ripreso in mano gli orari per le lezioni di architettura. In una settimana balzò al numero 1. Sui mezzi pubblici mi immaginavo che dietro le finestre delle case qualcuno mi conoscesse: uno straniamento incredibile». Poi hanno iniziato a riconoscerla tutti… «È una gabbia dorata. Dopo i concerti viaggio di notte verso la tappa successiva. E alle 5 del mattino se qualcuno ti riconosce devi sorridere». «Al centro» avrà il palco in mezzo alla platea. Una formula che ha già frequentato. «La prima volta al Flaminio nel 1991. Un’esperienza vertiginosa, è quasi un’esposizione eucaristica. Devi dare tutto il corpo. Sei un ago magnetico in cerca di orientamento continuo. L’idea dell’Arena nasce dalla tipologia dello spazio di cui è stata tradita l’origine: negli anfiteatri la sfida avveniva nel mezzo. Qui però non ci saranno sacrifici umani». Sente il rischio di cadere nell’autocelebrazione? «È un autoregalo. Questo è il mio anno santo. Agli esordi non pensavo che la mia carriera sarebbe partita. Poi che sarebbe finita subito. Si protrae l’appuntamento con un finale che non arriva». Ha pensato all’addio? «Sarebbe più elegante mandare un telegramma dopo e dire “non torno più”. È anche vero che il bel finale piace. Però non sarà questo. Questo sarà un lungo raid attraverso i 50 anni di carriera con qualche elemento da teatro totale per gli occhi. Non mi piace l’idea di mandare via la gente con ancora appetito». Si è spiegato perché le sue hit sono più famose per l’attacco che per il ritornello? «Passerotto non andare via…». «Sabato pomeriggiomi ha umiliato a lungo. Smisi di cantarla oppure la facevo nei medley senza incipit. È stata l’ultima con cui ho fatto pace». «Quella sua maglietta fina…» «L’artista soffre per essere conosciuto solo per i successi e vuole essere il primo a fare i baffi al proprio manifesto. Anche io ho avuto il momento in cui cambiavo gli arrangiamenti, ma così le canzoni non migliorano. Lo capii nell’86 quando a Palermo una persona mi affrontò: “Questa canzone non è più sua ma di tutti noi”. Un fondo di verità c’è».

(Corriere della sera )

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