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Claudio Baglioni «Qualche volta mi accorgo che alle 6 sto già pensando alla minestrina»  Stefano Bucci Il successo è meraviglioso, certo. Ma anche inutile. A meno di non sfruttarlo per realizzare i nostri sogni «perduti». Come riprendere quegli studi in architettura abbandonati tanti anni fa (con quindici esami già passati) e laurearsi con una tesi sul restauro e la riqualificazione urbana del Gasometro di Roma. L'architetto Claudio Baglioni, dall'alto dei suoi (oltre) 20 milioni di dischi venduti, si entusiasma ancora ricordando quel suo ritorno sui banchi dell'Università: «Mi avevano invitato a Valle Giulia a tenere una lectio magistralis , un altro dei vantaggi del successo e della celebrità, si è chiamati a parlare anche se magari non si bene cosa dire, facendo un po' la figura che faceva Marilyn Monroe quando andava tra i soldati in Corea... Alla fine il rettore mi ha chiesto: perché non si laurea? Ci ho provato. Alle prime lezioni avevo una paura incredibile, mi nascondevo con gli occhiali scuri, anche due paia me ne portavo dietro». L'esame più difficile? «Scienza delle costruzioni, un classico. Nella commissione c'era un ingegnere, l'ho un po' adulato dicendo che senza i calcoli degli ingegneri non potremmo fare nessuna architettura, lui mi ha risposto parlandomi di certi gruppi musicali dell'underground inglese che nemmeno conoscevo». E che quella di Baglioni per l'architettura (i suoi progettisti preferiti? Wright e Le Corbusier) non sia comunque un'infatuazione passeggera lo dimostra un'immediata precisazione: «Ho fatto anche l'esame di Stato, con un progetto per la città multietnica, con gli edifici colorati in modo diverso a seconda della loro destinazione». Fare l'intellettuale Quando aveva diciassette anni, Baglioni amava i racconti di Poe, l'esistenzialismo, i lupetti alla Juliette Greco: «A Centocelle o si diventava delinquenti o intellettuali, io avevo scelto la seconda possibilità, l'avevo fatto così bene che mi chiamavano Agonia mentre i miei coetanei erano il Mastino, il Volpe e un apprendista idraulico soprannominato il Galleggiante». Oggi, a sessantatré anni compiuti, nonostante continui ancora a vestirsi di nero (un nero più minimalista che gotico) ha scoperto il gusto del divertimento e del «cazzeggio», perché «anche se la vita non è un gioco, giocare mi piace, mi fa sentire vivo. Anche se qualche volta mi accorgo che alle sei del pomeriggio sto già pensando alla minestrina della cena e questo è segno che la vecchiaia ormai avanza». Sognando di comporre una messa, Baglioni trascorre il tempo lasciato libero dai concerti nuotando («Mi sento un uomo pesce») e soprattutto guardando in tv i programmi d'informazione: «Mi piace tenermi aggiornato, ma l'approfondimento in tv è una depressione continua, con tutti che si parlano addosso. Meglio, molto meglio guardare i documentari sulla natura come faceva mio padre». Lo stesso padre che lo voleva boxeur e che, mentre sentiva la voce e pensava di farsi prete e già faceva il catechista, lo portava a vedere gli incontri di pugilato «mettendogli però le mani sulle orecchie per non fargli sentire quello che dicevano ai margini del ring». E forse proprio in virtù di questo suo passato da quasi-boxeur Baglioni assicura di non voler finire «la carriera come un pugile suonato, cantando fino all'ultimo». E sogna, magari, «di rinchiudermi un giorno in un convento». La televisione? «Oramai celebra la mediocrità e la non-professionalità. È come il videocitofono». Anarco-mammoni Credente ma poco praticante, così si definisce oggi Baglioni: «Mi ero allontanato dalla religione quando un sacerdote sgridò mia madre perché eravamo entrati in chiesa passando dalla sacrestia. E anche i riti della settimana santa, così affascinanti ma anche così tragici, hanno finito per raffreddare il mio impeto. La Chiesa ha bisogno invece di alleggerirsi, di infondere entusiasmo. Proprio come sta facendo papa Francesco con la sua empatia capace di anticipare la sensibilità delle persone». Le capita ancora di pregare? «Da solo, con parole mie, quando ne sento il bisogno o quando un mio caro amico sta male». Le guerre la spaventano? «Mi preoccupano certo, ma penso che la cosa più grave è questa maledizione del presente, come la chiamo io, che fa crescere i nostri giovani con la paura del futuro». Baglioni è stato tra i primi artisti che ha parlato di immigrazione. Qualcosa è cambiato? «Purtroppo sembriamo incapaci di trovare una soluzione. È come se questo dramma sia stato metabolizzato. D'altra parte è uno dei vizi degli italiani: hanno sempre bisogno di qualcuno che ri-solva i loro problemi. Sono, insomma, degli anarco-mammoni». C'è persino un modello cinematografico che descrive questo modo d'essere: «La commedia all'italiana, per quanto fantastica, ha finito per celebrare gli eroi viscidi e mascalzoni interpretati da Sordi. Io preferisco i film di Germi o di Nazzari, dove non c'era mai il compiacimento della furbizia». Informatissimi ignoranti Anche Baglioni frequenta i social network, ma forse più di altri artisti sembra essere molto critico verso i nuovi media: «Sono una grande illusione, ti fanno sentire importantissimo anche se non lo sei. E ci hanno trasformato in una tribù di informatissimi ignoranti. Meglio invece i matti, gli scienziati, i visionari e i taciturni, perché io stesso posso immaginare il loro mondo, così come al ristorante mi piace inventare la storia delle persone del tavolo accanto». Anche Baglioni fanatico del selfie? «No. Meglio il caro vecchio autografo con dedica o la fotografia. Oggi, invece, alla stazione o all'aeroporto siamo prede dei cacciatori di selfie che si avvicinano, scattano e scappano via senza dirti una parola». Perché quello che conta per Baglioni è trovare un contatto «vero» con la gente e con il mondo, nonostante i possibili rischi: «Una volta Elio delle Storie Tese mi ha invitato a una serata per esordienti in un teatro in Toscana. In sala c'era l'applausometro, io ho cantato "in incognito" Strada facendo e ho perso con una coppia di illustri sconosciuti... Sapessi quanto mi sono divertito!».

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